Onorevoli Colleghi! - La Corte costituzionale, con ordinanza n. 586 dell'11-19 maggio 1988, ha ritenuto che la mancata previsione della facoltà della madre di trasmettere il proprio cognome ai figli legittimi risponda a un bisogno di tutela dell'unità familiare. In questo senso la Corte non ha riconosciuto una lesione del principio di uguaglianza.
Una violazione del principio di uguaglianza è ravvisabile invece in tutti i casi in cui il figlio viene allevato dalla sola madre, in seguito a morte o abbandono del marito o a divorzio: qui l'assunzione del cognome della madre, in aggiunta o in sostituzione del cognome del padre, sarebbe possibile senza danno alcuno alla famiglia.
Non ritenendo funzionale l'adozione del doppio cognome fin dalla nascita, o il cosiddetto nome di famiglia, estraneo alla nostra tradizione, ci appare più opportuno intervenire sulle norme che prevedono la modifica del cognome, ampliandone le possibilità, per esaurire le conseguenze sopra indicate.
Con la riforma del diritto di famiglia, ai sensi dell'articolo 143-bis del codice civile, introdotto dall'articolo 25 della legge 19 maggio 1975, n. 151, il cognome del marito non è più imposto alla moglie in sostituzione del cognome di nascita.
La prassi di attribuire il cognome paterno ai figli legittimi non corrisponde ad alcuna norma di legge positiva, anche se ha rilevanza poi nel possesso di stato di figlio legittimo (articolo 237, secondo comma, del codice civile) e nel riconoscimento di figlio naturale (articolo 262, primo comma, del codice civile).
A ben vedere la questione relativa alla scelta del cognome dei figli non appartiene al capitolo della parità fra coniugi: in una visione autenticamente liberale, il diritto